Ritorno alle origini

Silvia Paoli

La fotografia, così come l’abbiamo conosciuta prima del digitale, è opera di un grande scienziato, William Henry Fox Talbot. Basata sulla coppia negativo/positivo – i due termini furono coniati da John Herschel, fisico e amico di Talbot, e tratti dagli esperimenti sull’elettricità di Michael Faraday – l’invenzione di Talbot consentì di trarre più copie da una sola matrice, il negativo, così come avveniva per l’incisione. Il primo negativo, detto calotipo, su carta, fu ottenuto nel 1835: leggero e trasportabile, si diffuse sin dal 1841, anno del suo brevetto, in tutti gli ambiti del sapere.

Ma come era arrivato Talbot a questa straordinaria scoperta? Botanico, matematico, membro della Royal Society, al ritorno da un viaggio sul lago di Como nel 1833, convinto di essere un pessimo disegnatore, si era chiesto come le immagini della natura potessero rimanere impresse sulla carta grazie alla sola azione della luce solare. Con questa domanda si era messo alacremente a sperimentare su carte ai sali d’argento – le cui caratteristiche di annerimento alla luce erano note sin dal Settecento – per ottenere immagini “disegnate” dalla luce, intensificando gli esperimenti soprattutto dopo aver appreso che Louis Jacques Mandé Daguerre, a Parigi, aveva ottenuto nel 1839 il brevetto per il daguerreotype, straordinario e magico procedimento (come lo si percepì allora) di “cattura” del reale. Il dagherrotipo, lastra di rame argentata, era un unicum, prezioso e raffinato, che “fissava” immagini di grande nitidezza e precisione, ma impossibile da riprodurre.

Poter moltiplicare le immagini “scritte” dalla luce, – Talbot pubblicò il libro The Pencil of Nature tra il 1844 e il 1846, con fotografie originali – poter diffondere ciò che è visto in porzioni determinate di tempo e di spazio, ampliando così la conoscenza del mondo: fu tutto questo a consentire il successo dell’invenzione di Talbot, poi alla base di tutti i successivi esperimenti volti a migliorare qualità dei supporti, rapidità di esecuzione, nitidezza, ed arrivare al procedimento al collodio e all’“istantaneità” della gelatina ai sali d’argento.

Va ricordato anche Nicéphore Niépce, straordinario inventore che lavorò con Daguerre, avendo cominciato però ben prima di lui i suoi esperimenti, e a cui si deve la prima immagine fotografica della storia, scoperta nel 1952 da Helmut Gernsheim, la Veduta dalla finestra a Le Gras del 1826. Su lastra di peltro ricoperta di bitume di Giudea – un tipo di asfalto sensibile alla luce – l’eliografia (scrittura con del sole) di Niépce avrebbe dovuto anch’essa diventare, nelle intenzioni dell’inventore, una matrice per l’incisione “scritta dal sole”, cosa che tuttavia non accadde, anche per la morte precoce di Niépce avvenuta nel 1833.

Ma perché tante parole diverse per designare invenzioni accomunate dagli stessi principi? Le parole esistenti provarono a descrivere il nuovo per tentativi ma il termine fotografia (scrittura con della luce), poi accettato da tutti, fu inventato da Herschel, autore di photographic specimens e di cyanotypes, straordinarie “impronte” di oggetti lasciate dal sole su carte ai sali di ferro. Anche Talbot aveva ottenuto photogenic drawings, dal 1834, “impronte” di foglie, aghi di pino, guanti, pizzi, su carte ai sali d’argento esposte alla luce solare, e da questi era poi giunto a scoprire il negativo (ottenuto con l’esposizione della carta sensibilizzata in camera oscura) e l’immagine latente. Furono i suoi esperimenti, così come quelli di Herschel, di Anna Atkins, autrice del libro Photographs of British algae. Cyanotype Impressions del 1843, di Hippolyte Bayard, che oltre ai disegni fotogenici aveva ottenuto i positivi diretti, che contribuirono a tracciare la “via sperimentale” della fotografia, quella che porterà ai fotogrammi, chimigrammi, ossidazioni, acidazioni ecc. di Man Ray, Moholy Nagy, Veronesi, Munari, Grignani e poi Cordier, Monti, Migliori, De Antonis, Cattaneo…