Pittorialismi... e non

Mario Cresci

[NdR: i frammenti che seguono sono estratti dalla trascrizione di una lunga conversazione/intervista che gli studenti incaricati di occuparsi del Pittorialismo hanno avuto con Mario Cresci e anche per questo conservano il tono colloquiale di quella giornata. Cresci, da artista, ma anche da grande docente, con molte buone ragioni li ha condotti a grandi linee attraverso alcuni momenti della storia della fotografia, affrontando il pittorialismo più come tema trasversale che specificamente storico e inserendovi riflessioni importanti sia sulla didattica che sul suo percorso personale. Per gli studenti è stata un’esperienza illuminante, e anche influente, visto che il loro lavoro è nato anche in conseguenza dell’incontro con Cresci e con alcune sue opere, delle quali lo ringraziamo qui di averne autorizzato la pubblicazione.]

 Il pittorialismo nasce quando nasce la fotografia. I primi fotografi sono pittori.

Dunque il pittorialismo è nel DNA della fotografia. I pittori, sono coloro che hanno dimestichezza con il vedere, con l’inquadrare e sono in rapporto continuo con la natura, con i soggetti, con tutto il mondo reale. Molti di loro addirittura abbandonarono la pittura per darsi alla fotografia anche se dopo qualche decennio ritorna la nostalgia della pittura. E fu lì che si chiesero: “perché non usare la fotografia in termini pittorici?” Anche se in fondo la fotografia era ancora sentita come un medium specifico e non come un medium autonomo e creativo. Per cui iniziarono a colorare le immagini, a intervenire e a ritoccare con il pennellino. La pittura entrò così in contatto con la stampa fotografica e per i pittori fu un grande mezzo di innovazione e di evoluzione.

Nella fotografia, nata da un processo fotochimico, la luce disegna e incide la lastra e fa sì che si possa poi stamparne tante copie. Quindi alla base del fotografico non vi è solo un’attitudine sperimentale scientifica, ma anche commerciale. In molti si resero subito conto che poteva essere una professione che in qualche modo produceva nuove modalità di lavoro. Nascono le cartes de visite, si aprono i negozi, Nadar apre il suo studio per i ritratti, nascono luoghi dove le persone vanno a farsi fotografare. La fotografia diventa sempre di più mezzo di comunicazione, di estensione dell’immagine e di moltiplicazione della stessa: la pittura non poteva fare cento dipinti con lo stesso volto, invece con la fotografia si ha una matrice con cui si possono fare cento copie delle immagini della modella, del paesaggio, del notabile, ecc. Questo è un aspetto molto intrigante della fotografia.

Mario Cresci, Fuori tempo #3, Bergamo 2008

A un certo punto la fotografia dalla Francia si trasferisce in America. Arriva la 291 di Stieglitz che è stata la prima galleria al mondo dove esposero insieme artisti e fotografi. Stieglitz, in quanto fotografo e intellettuale di grande valore, ad esempio portò per la prima volta a New York gli impressionisti francesi; Camera Work, la rivista, seguiva le attività della galleria a livello teorico, sul rapporto pittura-fotografia. Duchamp, amico di Stieglitz, è stato il primo grande artista a capire le potenzialità della fotografia. Già allora si capisce che essa vive in parallelo con l’arte, la pittura e la scultura. Gli americani iniziarono così a pensare che il fotografico non servisse solo a documentare il sociale oppure a produrre immagini da archivio o da museo ma che fosse anche un mezzo per coloro che portano avanti una ricerca creativa.

 

La fotografia è qualcosa di più interessante di un semplice strumento per riprodurre la realtà come si credeva in un primo tempo. Al contrario il fotografico è il mezzo più potente per raccontare bugie. Non è affatto vero che facendo una fotografia tu racconti la realtà: racconti quello che vedi, ma ciò che è nell’immagine è già passato, non è già più quello che hai visto. Un mezzo molto ambiguo quello fotografico! Le avanguardie artistiche introiettarono questa dimensione sperimentale della fotografia e ancora una volta furono gli artisti a capirne le potenzialità.

E proprio un poeta, Baudelaire, dopo aver polemicamente definito la fotografia un’ancella della pittura invecchiando si ricrede. Si rende conto che pur essendo un mezzo meccanico il fotografare non fosse semplicemente un gesto automatico, e freddo. Con il ravvedimento di questo artista così importante, la fotografia aveva fatto passi da gigante verso l’arte.

A riprova di questo venne data a Cézanne una macchina fotografica da provare. Egli inizia a guardarci dentro e usandola intuisce che spostando il punto di vista il soggetto può cambiare. Capisce anche che con la pittura più coni ottici si possono depositare su un’unica tela e scopre così attraverso la fotografia ciò che poi sarebbe stato il principio del cubismo.

Mario Cresci, Baudelaire, dalla serie I rivolti, Bergamo 2013 (stampa giclée su carta cotone piegata a mano)

Un altro esempio è quello di Monet, al quale, già anziano, venne proposto da un amico di provare una macchina fotografica che usò senza cavalletto. Camminava per il suo giardino e faceva fotografie. Dopo una settimana l’amico gli fece vedere i provini, che allora erano delle piccole stampe. Monet rimase incredulo nel riconoscere come la macchina avesse letto in qualche modo il suo pensiero. Le immagini erano tutte mosse e si rese conto di come le sue fotografie corrispondessero esattamente a quello che stava dipingendo. Gli spiegarono la ragione: non avendo usato il cavalletto, il movimento della mano aveva fatto sì che le foglie e i fiori di ninfea risultassero mossi. Lui si meravigliò non capendo che si trattava di un fatto tecnico. Iniziò così a fotografare e lo stesso fecero altri pittori.

Oggi gli artisti usano tutto, dal cucito alla lampadina a led, e siamo arrivati al punto che il pittorialismo si è trasformato in un neopittorialismo e questo è interessante. Così molti fotografi inconsciamente fanno parte di un “nuovo pittorialismo” presente nella fotografia contemporanea.

Ho iniziato a usare la fotografia studiando il design. Non sono andato all’Accademia ma alla Scuola Superiore di Design a Venezia. Avevo frequentato il liceo artistico a Genova ed ero bravissimo a disegnare ma all’esame di ammissione a Venezia sono arrivato penultimo e quindi ho dovuto rivedere tutto il mio bagaglio culturale anche se poi ho spesso usato il disegno durante la mia ricerca artistica.

Ho sempre creduto infatti che i linguaggi debbano essere interscambiabili ma rispettando le loro identità. Il lavoro del fotografo è un lavoro di ricerca e di sperimentazione, se lo vuole fare. Preferisco infatti una fotografia che ti costringa a pensare altrimenti non serve a niente e a nessuno se non a gratificare lo sguardo del collezionista.

Ci sono tue opere che si avvicinano alle dinamiche pittorialiste?

Certo, perché no. C’è un lavoro, quello che riguarda i dipinti alla Pinacoteca dell’Accademia Carrara, (Fuori tempo, 2008): ho ripreso i volti spostando la macchina davanti alle tele così che la superfice pittorica potesse “animarsi” e diventare movimento. Questo lavoro può avere una matrice pittorialista ma il “mio pittorialismo” lo si può trovare nel pensiero e nel movimento della ripresa fotografica.

Quando sono arrivato a Bergamo in Accademia c’era un Consiglio di Amministrazione dove il più giovane aveva l’età che ho io adesso. Venivo da Matera e mi sono trovato queste persone che mi guardavano e dicevano: “Questo non è un pittore, non è famoso, è solo un fotografo” e mi chiedevano cosa c’entrasse la fotografia con l’Accademia.

La storia dell’arte e la storia della fotografia sono interessanti quando vengono collegate fra di loro. Oggi infatti dovremmo inventare dei metodi di apprendimento non tradizionali, più collegati alle esigenze delle nuove generazioni.

L’Accademia di Bergamo è stata impostata da me su questi concetti. È un gioiellino quest’Accademia: lo dichiaro apertamente perché merita attenzione.

Come direttore, personalmente, ho vissuto un periodo molto impegnativo, ma la scelta di relazionare la scuola con la realtà produttiva del territorio e l’interazione con altre discipline artistiche mi ha dato molta soddisfazione e ha portato l’Accademia a superare la dimensione localistica e a misurarsi validamente anche con le Accademie europee.