Le vie documentarie dell’arte

Pier Francesco Frillici

Negli anni trenta del XX secolo la pratica della “fotografia documentaria” prende una nuova coscienza di sé: non più solo strumento di comunicazione e archiviazione ma anche opera d’arte. Il documento fa il suo ingresso nel museo come nuovo “monumento”, simbolo perfetto del rinato interesse per il realismo e per la retorica dell’impegno socio-politico ampiamente diffusi nella storia culturale dell’epoca.
Negli Stati Uniti d’America, le drammatiche conseguenze della crisi del ‘29 sollecitano schiere di giovani fotografi a fornire pregnanti testimonianze “obiettive” sulle urgenze di una società messa in ginocchio dalla regressione economica. In questo clima movimentato nasce la Farm Security Administration, il “laboratorio di documentazione fotografica” più importante del suo tempo. Rimasta attiva dal 1935 al 1942, impegna un contingente eccezionale di fotografi, tra cui i quattro più rappresentativi restano Arthur Rothstein, Dorothea Lange, Ben Shahn e Walker Evans.
I primi due sono in possesso di uno stile documentario “spurio”, ibrido, enfatico simile a quello dei racconti fotogiornalistici ad alta intensità emotiva, dove l’immagine è un messaggio simbolico cui spetta prioritariamente il ruolo del persuasore, dell’affabulatore. Tutto in essa suggerisce la neutralità della notizia, l’immediatezza dello scatto, il caso e le cose colti “così come sono”; ma in realtà tutto è prestabilito mediante abili tecniche di messa in scena, che svelano una “vera” simulazione orientata, e in fondo tradiscono l’identità stessa del documentario.
Invece gli altri due, che sembrano loro consanguinei, risultano fedeli a uno stile radicalmente differente, quasi trasgressivo, ciononostante più conforme all’istanza di autenticità propria del documentario nella sua accezione originaria. Una forma di realismo “puro”, imparziale, senza mediazioni e senza compromessi ideologici, assolutamente libero in quanto contrario a strategie utilitarie o di propaganda. Un’ortodossia delle forme, insomma, garantita dalla libertà delle scelte e dalla riluttanza alle ideologie politiche e alle logiche editoriali, garante a sua volta di una maggiore polivalenza, di una maggiore disponibilità a interessare le tendenze della ricerca artistica sino ad oggi.
La difesa della loro inviolabile autonomia Shahn ed Evans la sostengono ad esempio nel modo peculiare di concepire il tempo della fotografia.
Il primo lo consuma rapidamente, immergendosi a capofitto fra le onde tumultuose dei gesti e dei sentimenti della vita umana, con istinto fulminante, come quello che animerà il reportagismo contemporaneo più innovativo.
Il secondo, devoto alla religione del silenzio, educato alla disciplina dell’immobilità e del distacco dagli umori e dai rumori del mondo, lo sospende in un istante dilatato e inesauribile, annunciando quella vocazione che poi saprà ispirare le più belle stagioni del paesaggismo contemporaneo.
Sono passati molti decenni ma queste due anime “candide” dell’FSA continuano a guidare lo sguardo profondo della fotografia, soprattutto quando interseca le prospettive dell’arte.
Negli anni la prima ha segnato esperienze visive in cui sono prevalsi il ritmo e la dinamicità narrativa, la liricità espressiva, l’interiorità e la corporeità; elementi di un’estetica che attraverso la visione ha stimolato nello spettatore lo scambio empatico, le relazioni psicologiche, la partecipazione concreta, nel nome di un’arte convinta che soltanto la resistenza attiva può combattere l’indifferenza del pensiero.
La seconda ha permesso di progettare dimensioni contemplative dense e complesse, in cui la relazione con lo spettatore continua a determinarsi attraverso pause meditative, descrizioni analitiche, riflessioni trasversali, attraverso un’apertura totale del campo delle possibilità e dei giudizi, nel nome di un’arte convinta che l’unica risposta sostenibile è in fondo la domanda stessa e che forse soltanto così si può combattere l’estinzione del pensiero.