La guerra alle spalle

Monica Poggi

Nel 1955 il filosofo tedesco Theodor W. Adorno conclude il suo saggio Critica della cultura e della società affermando: “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie.” Ritornerà più volte su questo argomento sottolineando quanto, in realtà, l’arte sia fondamentale di fronte a tali eventi (a cui forse solo la cultura riesce a rispondere), uscendone però irrevocabilmente modificata. Questo vale anche per la fotografia, che da ormai qualche decennio è diventata il linguaggio privilegiato dell’informazione. In questi anni nasce anche la figura mitica del fotoreporter, attorno alle cui gesta fioriscono aneddoti e leggende dal sapore eroico. Fra loro ci sono autori come Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, Alfred Eisenstaedt, W. Eugene Smith, Margaret Bourke-White e Lee Miller. Sono di quest’ultime alcune delle immagini più emblematiche e dolorose dei campi di concentramento, immagini attraverso cui lo stesso fotogiornalismo inizia a rivelare i propri limiti e le proprie ambiguità.
Ma la guerra è finalmente finita e non sono solo le città a dover essere ricostruite, ma anche e sopratutto il morale delle persone. Ancora una volta la fotografia sembra lo strumento più valido, come testimonia l’enorme successo della mostra The Family of Man tenutasi al MoMA nel 1955. Curata da Edward Steichen, l’esposizione riunisce 273 autori provenienti da 60 paesi diversi sotto l’imperativo di “raccontare l’unità del mondo in cui vivevamo” (E.S., A Life in Photography, 1963). Nonostante sia stato ampiamente criticato di fornire una visione edulcorata della realtà, il progetto rispecchia la cultura fotografica del dopoguerra, costellata da una serie di avvenimenti significativi che hanno posto le premesse per la sua stessa realizzazione.
Già dal 1946, a Parigi, nasce il “Groupe des XV”, che dà forma alla tendenza che oggi chiamiamo ‘fotografia umanista’, caratterizzata da un forte ottimismo e dall’attenzione per la vita umile ma felice della classe popolare. I punti di riferimento da seguire sono i capisaldi della fotografia francese ma anche autori contemporanei come l’ormai più che acclamato Henri Cartier Bresson, a cui nel 1947 il MoMA dedica una grande retrospettiva, credendolo erroneamente morto in guerra.
Nello stesso anno Cartier-Bresson, Robert Capa, George Rodger, David Seymour e William Vandivert, fondano Magnum Photos. Alle vicende della storica agenzia si lega anche un altro autore cruciale: W. Eugene Smith, accolto da Magnum nel 1955, dopo l’abbandono definitivo di «Life» a causa di continue divergenze. È fra le pagine della rivista, tuttavia, che Smith scrive uno dei capitoli più significativi del fotogiornalismo, con i suoi saggi fotografici – per citarne uno fra tutti, Country Doctor pubblicato nel 1948 – dove coniuga un forte impegno civile con immagini teatrali e spesso costruite. La sua grandezza risiede proprio nel aver saputo trasgredire a uno dei principi fondanti della pratica giornalistica, l’aderenza alla realtà dei fatti, senza però tradirne le intenzioni e le motivazioni.
Parallelamente, in Italia, la volontà di prendere le distanze dalla retorica fascista porta i fotografi neorealisti a utilizzare la macchina fotografica come vero e proprio strumento d’indagine sociologica. Attraverso essa riescono ad analizzare i problemi del paese, come la situazione del meridione o delle campagne, ma anche la sua spinta verso il progresso di cui la città di Milano diventa l’emblema.
Sono queste esperienze a dare origine a The Family of Man, vera e propria sintesi di un modo di intendere la fotografia che si è diffuso in tutto l’occidente dagli anni Trenta in poi. Come spesso accade però, il momento di massimo riconoscimento di qualcosa coincide anche con l’inizio del suo declino, che in questo caso è rappresentato dall’avvento, da lì a poco, della televisione, che modificherà definitivamente il nostro rapporto con l’informazione visiva e costringerà ancora una volta la fotografia a riformulare le proprie regole.