Mutamento d’identità

Roberta Valtorta

Tra gli anni dieci e trenta del Novecento con la stagione straordinaria delle avanguardie l’arte cambia volto e compie una trasformazione nella quale la presenza della fotografia (e del cinema) è assolutamente rilevante. Nel punto della storia in cui rompono con l’antica e sedimentata tradizione figurativa distruggendo l’idea stessa di rappresentazione, le avanguardie chiamano in causa la più “realistica” delle arti: il legame con la realtà e la meccanicità che la fotografia offre si inscrivono nell’attualità del dialogo con la società industriale e con la vita riprodotta, con il quotidiano, il molteplice, il frammentario, il seriale che iniziano a caratterizzare il nuovo mondo.

La fotografia vien quindi ad assumere nell’ambito della ricerca artistica significati nuovissimi. Per gli artisti delle avanguardie impegnati a rivoluzionare l’arte, la fotografia non è più una tecnica per raggiungere risultati pittorici, ma rappresenta molte cose: l’avvicinamento dell’arte alla vita (è il caso del Dadaismo); l’attenzione nei riguardi della tecnologia che ormai investe molti aspetti della società (si pensi al Costruttivismo e anche al Futurismo, sebbene i pittori futuristi non abbiano facilmente accettato la fotografia, per esempio e stranamente quella sperimentata da Anton Giulio Bragaglia con le sue fotodinamiche); il mescolamento di linguaggi alti e linguaggi massmediali (da qui l’importanza della fotografia sui giornali e nei manifesti); l’apertura verso l’interdisciplinarietà e la distruzione della gerarchia tra arti maggiori e arti minori (come nel Bauhaus); l’importanza del frammento, del prelievo, dell’accostamento arbitrario di figure e oggetti (basti ricordare la centralità del collage, che trova corrispondenza nel fotomontaggio, entrambi presenti nel Cubismo, nel Costruttivismo, nel Dadaismo, nel Surrealismo).

La fotografia si offre dunque agli artisti come un nuovo e maneggevole strumento di sperimentazione, capace di suggerire nuovi approcci alla realtà sensibile e di introdurre improvvisi segni di realtà nella comunicazione. È così che la giovane arte meccanica compie il salto di identità che la porta verso la contemporaneità. È stato molte volte rilevato che la fotografia risponde alle stesse logiche che governano il ready made congegnato da Marcel Duchamp e da Man Ray, l’idea cioè che alla rappresentazione possa sostituirsi la “presentazione” delle cose, una volta prelevate dal loro contesto abituale.

Troviamo questa logica, per esempio, appunto nel fotomontaggio (Hanna Höch, Raoul Hausmann, El Lissitzky, Herbert Bayer, John Heartfield, Heinz Hajek-Halke, Alexandr Rodchenko, Laszlo Moholy Nagy) o nel fotogramma (Tristan Tzara, Man Ray, Christian Schad, Laszlo Moholy-Nagy, Luigi Veronesi), forme nelle quali è evidente la cancellazione della prospettiva e l’abbandono dell’idea di rappresentazione.

Ma la carica innovativa contenuta nella meccanicità e la forza progettuale della fotografia si manifestano anche nella realizzazione di riprese “regolari”, con la ricerca però di punti di vista insoliti, nuove astrazioni, dinamismi, costruzioni ottiche, accurate composizioni e di una “nuova visione”, che troviamo negli stessi Moholy Nagy o Rodchenko, in Florence Henri, Frantisek Drtikol, Lotte Jacobi, Lucia Moholy, Walter Peterhans, fino all’influenza esercitata su Edward Weston, Imogen Cunningham, Tina Modotti. La potenza della visione fotografica che rivela lati inaspettati del visibile colpisce anche artisti come Hans Bellmer, Herbert List, Emmanuel Sougez, Brassaï, André Kertész: è lo stupore surrealista nei confronti del mondo e dell’apparizione improvvisa e straniata degli oggetti sulla scena, come nel sogno e nei misteri dell’inconscio, che attraverserà la fotografia per tutto il Novecento, penetrando anche in generi più canonici come il reportage (si pensi al momento decisivo bressoniano), la moda e la pubblicità.