Gli anni sessanta-settanta: Postmodern, this way!

Sergio Giusti

Anche dopo l’invenzione delle pellicole a colori, fino agli anni sessanta la fotografia considerata seria è rimasta quella in bianco e nero. Un’immagine del mondo perennemente in grisaglia, dove la realtà era resa nei toni del grigio. 

Il colore era ritenuto adatto alla fotografia pubblicitaria o da rotocalco, generi pensati come commerciali o frivoli, votati alla seduzione dell’osservatore e non certo a quell’analisi della realtà che la fotografia documentaria o di reportage si prefiggevano. Spesso non poteva essere adeguato nemmeno ad accompagnare i lavori concettuali e le performance iconoclaste di quelle neovanguardie che rifiutavano di compiacere il gusto “popolare” imposto dalla società di massa. 

Bisogna aspettare la metà degli anni sessanta (se si eccettuano alcuni anticipatori tra cui Eliot Porter, Ernst Haas e poi Joel Meyerowitz) perché i fotografi comincino con continuità a sperimentare con il colore, e solo gli anni settanta perché si moltiplichino le mostre importanti. Nel 1971 Stephen Shore fa una mostra al Met di New York, vista quasi come una curiosità, e nel 1976 John Szarkowsky dedica al MoMA la prima mostra con catalogo riservata a un fotografo del colore: William Eggleston. Parallelamente in Italia, fin dai primi anni settanta fotografa a colori anche Luigi Ghirri, oggi considerato un maestro imprescindibile della fotografia italiana, la cui cifra stilistica è indissolubile dall’uso del colore. Seguiranno altri autori, tra cui Joel Sternfeld e Mitch Epstein. 

La storia è nota, reperibile in qualsiasi manuale, i suoi protagonisti pure. Più interessante è capire perché la realtà dei colori ci abbia messo così tanto tempo a diventare parte della realtà artistica e documentaria del fotografico.

La domanda è lecita: ciò che ci circonda è a colori, non certo in bianco e nero. Perché precludersi una qualità delle cose visibili a noi così evidente? Certamente uno dei motivi risiede in una sorta di coazione a ripetere: la fotografia, per certi versi, è una sorta di nipote delle arti grafiche, quelle tecniche “minori” che permettevano agli artisti di produrre multipli. La maggior parte di queste opere su carta, com’è noto, era in bianco e nero. In questo senso, la fotografia ne sarebbe una versione perfezionata e sarebbe rimasta quindi affezionata a quei valori tonali, anche dopo l’invenzione del colore.

A sciogliere quest’atteggiamento conservatore, contribuirà la maggiore presenza del colore nella realtà sempre più antropizzata e artificiale degli anni sessanta e settanta. Pensiamo alle insegne luminose, ai coloranti industriali che trasformano i luoghi, le case, le automobili, i vestiti, persino i cibi in oggetti variopinti dai colori alle volte improbabili. Questa invasione del colore non poteva passare inosservata e ha quindi cominciato a influenzare con forza gli occhi dei fotografi. 

Tuttavia può esserci una ragione, magari più paradossale, eppure scientificamente fondata: il colore non è esattamente una proprietà intrinseca delle cose ma una sensazione che proviamo nel nostro sistema visivo. 

La luce in sé è formata dall’intero spettro del visibile, che si presenta alla vista come bianco. Un oggetto che ne è colpito assorbe alcune frequenze di tale spettro e ne riflette delle altre. Sono quelle riflesse a colpire il nostro occhio, che le decodifica come colori. Forzando un po’ il linguaggio, il colore è una sorta di resa virtuale che il nostro sistema occhio-cervello fa della frequenza delle onde luminose che lo colpiscono. 

La fotografia a colori, a sua volta, è una resa fotochimica di queste sensazioni che non è mai identica all’esperienza diretta. Se la realtà a colori è già frutto della mediazione del nostro sistema visivo, la fotografia a colori è una mediazione della mediazione. Ben lontana dalla realtà, quindi. 

Il vero motivo del successo del colore in fotografia, dagli anni settanta in poi, potrebbe derivare dunque dall’affermarsi della società postmoderna, meno sicura di sé e delle sue verità, dove realtà e finzione si mescolano in un tripudio di simulacri. E il colore ne diventa l’insegna… al neon, ovviamente! 

Fotografare a colori, infatti, è un’avventura diversa, dove il rigore e la provocazione, l’eleganza e il kitsch, il quotidiano e la meraviglia possono convivere. Un mondo ricreato, dove le corrispondenze e le atmosfere cromatiche avvicinano la fotografia alla costruzione cinematografica. Da qui si è generata un’epopea di esperimenti fotografici su una realtà composita, nella quale documento, artificio, valori fotografici e valori pittorici si combinano per mostrarci una complessità sempre crescente, fino a sfociare oggi in quella in cui, secondo molti, siamo ormai pienamente immersi: la cosiddetta realtà virtuale.